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martedì 18 gennaio 2011

IL SACRO GRAAL,UN MISTERO DI 2000 ANNI


Per 2000 anni gli uomini si sono recati ai quattro angoli del mondo conosciuto alla spasmodica ricerca del santo grall,il calice in cui Gesù bevve il vino durante l'ultima cena e in cui ,secondo la tradizione,Giuseppe D'arimatea,ricco commerciante membro del sidedrio e discepolo di Gesù,ne raccolse il sangue durante la crocifissione.
Da allora schiere di cavalieri, nobili, studiosi, esploratori ed archeologi, animati dal desiderio di ritrovare la reliquia più sacra della cristianità, hanno creduto di averla localizzata ora in Medio Oriente, ora nell’Europa Continentale, ora in Inghilterra, ora nel Nuovo Mondo.
In questa trattazione saranno passate in rassegna le principali ubicazioni del Santo Calice che, volta per volta, sono state proposte dai vari studiosi come possibili nascondigli del Graal.
Alcuni ricercatori hanno avanzato l’ipotesi secondo cui il Santo Calice si trovi in Iran, per la precisione da qualche parte all’interno della fortezza di Takht-I-Sulaiman
, sede principale del culto di Zoroastro, la cui struttura architettonica presenta delle forti similitudini con quella del leggendario "Castello del Graal", descritto dal poeta tedesco Wolfram von Eschenbach nel poema Parsifal
. A seguito di tale notevole rassomiglianza, alcuni studiosi postulano che questa fortezza sia da identificarsi con la mitica "Sarraz", il leggendario ed irraggiungibile luogo dove il Santo Graal sarebbe stato portato e dove sarebbe ancora oggi custodito.
Anche l’Italia è stata più volte chiamata in causa da studiosi e storici come uno dei paesi in cui il Santo Graal sarebbe stato portato ed in cui potrebbe tuttora trovarsi; una delle regioni che potrebbe ospitare la più importante reliquia della cristianità è la Puglia.
Nel 1087 Papa Gregorio VII (Soana, Toscana, 1020 c. - Salerno 1085), avendo localizzato il calice nei territori occupati dai Turchi Selgiuchidi e ritenendo che la sua presenza in loco potesse aiutare i turchi nella loro avanzata contro l’impero bizantino, organizzò segretamente una spedizione per recuperarlo, spedizione costituita da 62 marinai, accuratamente selezionati tra quelli che lavoravano abitualmente nel porto di Bari.
Purtroppo non sono noti documenti che rivelino i dettagli della missione né il luogo in cui sarebbe stato custodito il Santo Calice; ci è dato di sapere soltanto che i marinai rinvennero, in una chiesa sconsacrata di Myra, nell’attuale Turchia, un calice, subito identificato con il Santo Graal ed alcune ossa, ritenute appartenenti alle spoglie mortali di S. Nicola (IV secolo). La tradizione narra che quest’ultimo abbia posseduto, nel VI secolo, la coppa, grazie alla quale elargiva doni e dispensava cure ai bisognosi ed ai malati. Secondo alcuni studiosi, peraltro, questa leggenda avrebbe dato origine alla credenza popolare, diffusa tra i bambini dei paesi occidentali, di Santa Claus, meglio conosciuto come Babbo Natale, che non sarebbe altro che la trasposizione occidentale in chiave moderna di S. Nicola.
Una volta che la coppa ed i presunti resti del santo vennero portati a Bari, Papa Gregorio VII dette ordine di far erigere una basilica nella città, la Chiesa di S. Nicola, giustificandone la costruzione con la necessità di custodire degnamente le spoglie mortali di S. Nicola ma in realtà con il segreto intento, secondo alcuni studiosi, di nascondervi il Santo Graal.
La Puglia è ancora una volta al centro della "cerca" del Graal in Italia. Difatti, poco lontano da Bari, ad Andria, vi sarebbe un altro possibile nascondiglio del Santo Calice: Castel del Monte
.
Alcuni studiosi teorizzano che i Sufi
consegnarono il Santo Graal all’Ordine dei Cavalieri Teutonici
, con cui erano in contatto ed intrattenevano stretti rapporti di scambio culturale. I Cavalieri Teutonici, a loro volta, avrebbero affidato la reliquia all’imperatore Federico II Hohenstaufen (Iesi 1194 - castello di Fiorentino, Puglia, 1250) il quale, successivamente, l’avrebbe collocata nel Castel del Monte, edificato proprio per custodirla.
Il fine ultimo delle Crociate era quello di liberare dall’occupazione mussulmana il Santo Sepolcro, ossia il luogo ove il corpo di Gesù venne collocato e ove rimase fino alla Resurrezione. Tuttavia, per fare ciò, era necessario conquistare la città di Gerusalemme.
Al termine del 1099 i cavalieri crociati espugnarono la Città Santa e ne conservarono il dominio fino al 1187, anno in cui i mussulmani la riconquistarono. Tra gli oggetti che i crociati recuperarono in Terra Santa e portarono in Europa vi era anche quello che la tradizione chiama il "Sacro Catino", un piatto di vetro di colore verde smeraldo di 40 centimetri di diametro rinvenuto durante il saccheggio di Cesarea nel 1101 e trasferito a Genova da Guglielmo Embriaco.

Nel 1806 i francesi lo portarono a Parigi e dopo un decennio, nel 1816, ritornò nuovamente a Genova; nel 1950 fu restaurato ed oggi è possibile ammirarlo nel Museo del Tesoro di S. Lorenzo della Cattedrale di S. Lorenzo a Genova.
I cavalieri crociati che rinvennero il piatto ritenevano che fosse stato ricavato, nella notte dei tempi, da un grande smeraldo e che la regina di Saba ne avesse fatto dono al re Salomone (961 a.C. c. - 922 a.C.) in occasione di una visita ufficiale durante la quale ella avrebbe messo a dura prova la saggezza del costruttore del Tempio di Gerusalemme con una serie di enigmi.
La tradizione ha da sempre identificato questo piatto con il Santo Graal in quanto una leggenda narra che quest’ultimo venne intagliato in uno smeraldo.
È interessante notare, a questo punto, come, nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach, il Santo Graal assuma i connotati di uno smeraldo.
Eschenbach asserisce di avere attinto una cospicua parte degli elementi narrativi del suo poema dal "Perceval ou le conte du Graal", di Chrétien de Troyes (seconda metà del secolo XII) e da un libro scritto da un non meglio identificato Kyot de Provence il quale, a sua volta, sarebbe venuto a conoscenza dell’associazione Graal-smeraldo dopo aver consultato una fonte documentaria antecedente attribuita ad un dotto mussulmano di nome Flegetanis o Flegitanis, profondo conoscitore dei misteri dell’universo e secondo quanto riportato da Eschenbach stesso, discendente di re Salomone.
Flegetanis avrebbe scritto un libro in cui narrò l’epocale scontro avvenuto tra gli angeli ribellatisi all’autorità del Signore e quelli a lui ancora fedeli e di come dalla corona di Lucifero
l’angelo a capo della fazione ribelle, in una circostanza del conflitto o durante la sua caduta all’Inferno, si distaccò un grande smeraldo che, una volta caduto sulla Terra, sempre secondo quanto riportato da Flegetanis, prese il nome di Gral o Graal.
Esiste una variante di questa leggenda secondo cui lo smeraldo si staccò dalla fronte di Lucifero, anziché dalla sua corona.
La locazione anatomica dello smeraldo di Lucifero non può non richiamare l’"urna", il piccolo cerchio collocato in mezzo alla fronte con cui le iconografie induista e buddista ritraggono rispettivamente gli dei del pantheon mitologico-religioso induista e Buddha.
L’urna, secondo il misticismo orientale in generale ed il Tantrismo
in particolare, è la rappresentazione figurativo-simbolica del sesto chakra, l’ajnachakra, il cui significato in sanscrito è chakra "ove risiede il comando".
Tale chakra, tradizionalmente localizzato in mezzo alla fronte, in corrispondenza del terzo occhio, presiede alla dimensione mentale sottile, al senso dell’ego ed al puro intelletto e simboleggia l’equilibrio psicofisico necessario per il raggiungimento di un livello superiore di consapevolezza.
Gli autori del saggio dal titolo "Il Santo Graal - Una catena di misteri lunga duemila anni" ipotizzano che Kyot de Provence sia uno pseudonimo e che dietro di esso vi sia in realtà Guiot de Provins, un trovatore, monaco e portavoce dei Templari
, che visse in Provenza componendo poesie d’amore e scagliando attacchi contro l’autorità ecclesiastica del tempo.
Sembra accertato che nel 1184 Guiot si trovasse a Magonza, in Germania, per partecipare alla festa cavalleresca di Pentecoste, assieme ad altri poeti e trovatori provenienti da diversi paesi. È lecito ipotizzare che a tale celebrazione fosse presente anche Wolfram von Eschenbach, in quanto cavaliere del Sacro Romano Impero e poiché a quel tempo i dotti non erano molto numerosi, non si può escludere la possibilità che lo scrittore tedesco ed il trovatore francese si siano conosciuti ed abbiano stretto un rapporto di amicizia.
Non è da escludere neanche la possibilità che quanto riportato nel Parsifal da Eschenbach gli sia stato rivelato confidenzialmente da Guiot, anche se in forma simbolica.
A differenza di altre versioni della vicenda del Graal, in cui esso viene descritto come una coppa o un bacile, nel Parsifal, Eschenbach lo connota come una pietra; il breve brano del poema qui di seguito riportato mostra questo aspetto:
Una pietra della natura più pura chiamata lapsit exillas... "Per quanto gravemente fosse malato, un uomo che un giorno vedesse la pietra non può morire per una settimana... e se egli può vedere la pietra, per duecento anni il suo aspetto non muterà mai salvo che forse i suoi capelli diverranno grigi."
È interessante notare come il titolo stesso dell’opera di Eschenbach, Parsifal, sia evocativo di una nuova concezione simbolica del Santo Graal e di come tale concezione si riferisca ad una tradizione religiosa orientale che sembra avvallare l’ipotesi secondo cui la reliquia sia strettamente legata con il culto di Zoroastro e sia quindi custodita nella fortezza di Takht-I-Sulaiman. Parsifal, difatti, è il risultato dell’unione di due termini: "Parsi" e "Fal".
I Parsi
costituiscono un’etnia dell’India che professa il parsismo
, termine moderno con cui viene designato il zoroastrismo, il culto religioso di Zaratustra; essi discendono da quei persiani che nel 735 d.C. si spinsero fino all’India, con la speranza di preservare la loro fede originale, per sfuggire all’oppressione dei conquistatori mussulmani.
Sulla base di tale considerazione si può avanzare l’ipotesi secondo cui il Santo Graal, qualora fosse giunto tra i Parsi, sia stato da alcuni di questi portato in India e che attualmente esso si trovi da qualche parte nel subcontinente indiano.
Fal è una delle potenti divinità del pantheon mitologico-religioso degli antichi Celti ed il suo nome è sovente associato ad una pietra dotata di poteri sovrannaturali, pietra che la tradizione narra sia stata donata agli uomini, insieme ad altri tre potenti oggetti magici, da creature provenienti dalle profondità dello spazio siderale e successivamente divinizzate dal popolo: gli onniscienti Tuatha de’ Danaan.
Questi quattro oggetti, la "Pietra di Fal", la "Spada di Nuada", il "Calderone di Dagda" e la "Lancia di Lugh", secondo quanto riportato dalla leggenda, sarebbero stati in grado di trasmettere la conoscenza a chiunque ne fosse entrato in possesso. Nel breve brano estratto dal Parsifal e riportato sopra, emerge che il Santo Graal in forma di pietra è in grado di curare le malattie e di donare l’eterna giovinezza, sarebbe quindi dotato di due delle tre proprietà possedute, guarda caso, dalla pietra filosofale.
In Alchimia la pietra filosofale, detta anche "grande pietra" o "rubino dei saggi" o "donum dei", è il risultato finale della terza parte dell’Opera Alchemica ossia la "Grande Opera" o "Magistero".
Attraverso la realizzazione della pietra filosofale, l’adepto
raggiunge lo stato divino, l’illuminazione, trascendendo la realtà fisica dell’universo ed elevandosi così ad un livello superiore di coscienza. Dopo l’ottenimento della pietra filosofale, l’adepto la elabora ulteriormente ed il suo potere viene da questi orientato sia verso il regno minerale che verso il mondo organico; tale elaborazione conferisce alla "grande pietra" tre straordinarie proprietà, i tre supremi doni della cosiddetta "triplice corona dei saggi".
La prima proprietà consiste nella "panacea" o "medicina universale", costituita dalla stessa pietra filosofale, nella fattispecie detta "polvere rossa", che, disciolta in un liquore alcolico, si trasforma nell’"elisir di lunga vita". Una volta ingerito, tale elisir è in grado di curare qualsiasi malattia e di donare l’eterna giovinezza, assicurando così all’adepto l’immortalità fisica.
La seconda proprietà è sempre assicurata dalla "panacea", la cui assunzione, in questo caso, garantisce, a chi ne faccia uso, il raggiungimento di uno stato di beatitudine celestiale e l’ottenimento dell’onniscienza, grazie alla quale l’adepto acquisisce il dono della conoscenza del passato, del presente e del futuro, nonché della capacità assoluta di discriminare tra il bene ed il male.
La terza proprietà della "grande pietra" consiste nel suo potere trasmutativo dei metalli vili in quelli nobili, in particolare l’oro. Nonostante la terza proprietà del "rubino dei saggi" sia la meno importante della "triplice corona" del potere e del sapere, essa è sempre stata la più ambita dagli alchimisti di ogni epoca e la più ricorrente nell’immaginario collettivo popolare.
La trasmutazione dei metalli vili in oro ed argento si ottiene quando la pietra filosofale è in forma di polvere, la cosiddetta "polvere di proiezione" ed in tale forma prende il nome di "tintura" in quanto acquisisce la capacità di "tingere", ossia di colorare i metalli vili, trasmutandoli così in metalli nobili. La "polvere di proiezione" viene fermentata o impregnata dell’essenza dell’oro e dell’argento per conferirle la specifica proprietà di convertire qualsiasi metallo vile in uno di questi preziosi materiali; grazie alla terza proprietà l’adepto è in grado di accumulare enormi ricchezze che, tuttavia, utilizzerà esclusivamente per fini umanitari e filantropici in quanto la sua coscienza e la sua moralità si sono evolute parallelamente all’elaborazione della pietra filosofale, il cui completamento è reso possibile solo dal raggiungimento da parte dell’adepto dello stato divino.
Uno dei due aspetti della prima proprietà della pietra filosofale, "l’elisir di lunga vita" o "dell’eterna giovinezza", presenta degli interessanti parallelismi con la leggenda della fonte dell’eterna giovinezza situata nel ricchissimo regno del misterioso "Prete Gianni", oggetto di studio e di lunghe ricerche da parte di numerosi viaggiatori medievali i quali credevano di averne individuato l’ubicazione in India.
Nel Parsifal di Wolfram von Eschenbach ritroviamo tutti questi elementi narrativi ed è interessante notare come essi siano legati tra loro dall’archetipo della pietra, nella cui forma Eschenbach descrive il Santo Graal. Il poeta tedesco, difatti, rimuove la tradizionale veste di coppa o calice con cui fino a quel momento il Graal era stato concepito, ed introduce un significativo elemento di rottura tra il suo poema e quello di Chrétien de Troyes, a cui, peraltro, egli si ispirò e da cui trasse la struttura narrativa per la sua opera ma da cui, grazie all’originale concezione mistico-simbolica del Santo Calice, volle anche distaccarsi.
Nel momento in cui il simbolo archetipico del Santo Graal perde i connotati della coppa ed assume quelli di una pietra, egualmente dotata di poteri taumaturgici ed in grado di dispensare la vita eterna, esso subisce, come abbiamo visto, un processo identificativo con la pietra filosofale ed al contempo fornisce coerenza narrativa alla divagazione sulla vicenda del regno di Prete Gianni.
Nel Parsifal, difatti, Repanse, la figlia di re Amfortas, il leggendario "Re Pescatore", così chiamato poiché al pari di Gesù, secondo quanto tramandato dalla tradizione popolare, saziò una moltitudine di persone moltiplicando un singolo pesce, sposa il fratellastro di Parsifal, il saraceno Feirefiz. I due coniugi si recano in India, dove Repanse da alla luce Prete Gianni, il misterioso sacerdote cristiano che fondò ivi un potente regno.
Grazie a questa leggenda collaterale la "cerca" del Santo Graal si arricchisce di un’ulteriore diramazione, questa volta orientata verso l’India, dove alcuni studiosi postulano che il Santo Graal si trovi tuttora.
La possibile ubicazione del Graal in India, così lontana da tutte le tradizionali rotte narrative della "cerca" del calice, trae la sua giustificazione, secondo quanto ipotizzato da alcuni cacciatori del Graal, da una misconosciuta credenza popolare tuttora viva nel Kashmir indiano, credenza che costituisce il fondamento ideologico-religioso della setta mussulmana Ahmadiyya
.
I proseliti di questo culto sono, difatti, fermamente convinti che Gesù sia sopravvissuto alla crocifissione, sia completamente guarito dalle ferite riportate durante la Passione e la crocifissione stessa e si sia diretto verso oriente assieme a Maria e Tommaso alla ricerca delle dieci tribù perdute di Israele. Dopo un lungo e periglioso viaggio attraverso l’Asia Centrale, Gesù sarebbe giunto finalmente nel Kashmir, ove si sarebbe stabilito e sarebbe morto per cause naturali in tarda età.
Nella capitale del Kashmir, Srinagar, è situato un tempio mussulmano, il Rozabal, all’interno del quale vi è una pietra sepolcrale la cui iscrizione attesterebbe che sotto di essa venne sepolto un individuo di nome Yus-Asaf, che in arabo significa Gesù!
Questa curiosa leggenda approda in Occidente grazie ad un libro pubblicato nel 1976 e scritto in spagnolo dal ricercatore Andreas Faber-Kaiser il quale cita, come fonte documentaria, gli studi condotti dal Prof. F.M. Hassain, Direttore dei Dipartimenti Statali di Storia del Kashmir.
Il Prof. Hassain sarebbe venuto a conoscenza di questa vicenda nel 1965 mentre si trovava a Leh, l’antica capitale del Ladakh, dopo aver esaminato alcuni diari lasciati nel 1890 da due missionari tedeschi i quali, a loro volta, avrebbero letto la traduzione, eseguita da un viaggiatore russo di nome Nikolai Notovich, di alcuni antichi manoscritti tibetani conservati nel monastero di Hemis; manoscritti che avrebbero narrato la storia del viaggio di Gesù e di come egli sarebbe giunto in India ed in Ladakh.
Una parte degli studiosi che ha preso in considerazione questa leggenda e che ritiene possa contenere un fondamento di verità storicoarcheologica ha azzardato l’ipotesi secondo cui Gesù abbia portato con sé la coppa nella quale bevve il vino durante l’Ultima Cena e che essa sia nascosta da qualche parte nel Kashmir o in Ladakh.
Un’altra ipotesi sull’ubicazione del nascondiglio del Santo Graal in Italia prende forma dalla credenza popolare secondo cui questa reliquia sia nascosta da qualche parte nel capoluogo piemontese e le indicazioni per scoprire il luogo dove si troverebbe sarebbero ermeticamente contenute nell’architettura stessa della Chiesa della Gran Madre di Dio, la cui costruzione venne decisa nel 1814 per onorare il ritorno dei Savoia a Torino dopo la caduta dell’impero napoleonico.
I lavori di costruzione della chiesa, eretta a imitazione del Pantheon sulle rive del Po, presso il Ponte Vittorio Emanuele, da Ferdinando Bonsignore (Torino, 1767 - ivi, 1843), iniziarono nel 1818 e terminarono nel 1831.
La statua della Fede, situata sul sagrato dell’edificio ed affiancata alla sua destra da un angelo, fornirebbe le indicazioni dettagliate per scoprire il nascondiglio del Graal. Con la mano destra la statua regge un libro aperto appoggiato sulla coscia destra mentre con la mano sinistra alza al cielo un calice. Secondo alcuni studiosi il calice simboleggerebbe il Santo Graal e la direzione dello sguardo della statua, assieme ad altri dettagli strutturali di difficile interpretazione simbolica, svelerebbero l’ubicazione della reliquia.

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